28/03/2024
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©Bruno Zanzottera, Parallelozero, Eritrea, Asmara, davanti al vecchio Caravanserraglio

©Bruno Zanzottera, Parallelozero, Eritrea, Asmara, davanti al vecchio Caravanserraglio

In questi ultimi anni, come un po’ tutti sappiamo la rete ha avvolto il pianeta.
I dati che si riferiscono a internet nel 2015 dicono che 3 miliardi di persone, il 41% della popolazione mondiale usa attivamente la rete, con 2,1 miliardi, cioè il 29% che partecipa a un social media e 3,6 miliardi, il 51% che possiede un cellulare.

E in Africa il cellulare è diventato il segno di nuovi consumi, risolvendo problemi pratici. In Senegal, per esempio, i pescatori lo usano per sapere in tempo reale dove convenga sbarcare il pescato, mentre in Kenya il servizio M-Pesa di Safaricom permette trasferimenti di denaro immediati.

Perciò anche nei paesi da cui si scappa, si scappa con il telefonino.

È sufficiente, del resto, fare un giro per i quartieri delle città italiane dove, per il minor tempo possibile, si fermano i “clandestini”, cioè chi non vuole essere riconosciuto per poter proseguire il viaggio verso altri Paesi, per vedere che tutti stringono nelle mani un telefonino.

È una situazione abbastanza nuova che porta con sé alcune considerazioni, innanzi tutto sul paese da cui queste persone fuggono, da cui escono senza visti sul passaporto. In paesi poveri come l’Eritrea il telefonino, diffusissimo, serve non solo per chiamare parenti e amici, per sapere come fare per vivere all’estero ma anche per contattare ed essere contattati dai trafficanti che, con la loro organizzazione, rispondono a una precisa “richiesta di mercato”.

Per gli eritrei il viaggio verso l’Europa o l’America comincia nei campi profughi dei paesi confinanti, Etiopia e Sudan. In questi paesi, dice l’Unhcr (Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite) si concentra il maggior numero di giovani eritrei, ragazzi tra i 18 e i 24 anni, non gruppi familiari.

L’Unhcr dice che gli eritrei hanno cominciato a riempire i campi etiopici “nel 2002 dopo la conclusione del conflitto tra Eritrea ed Etiopia (1998-2000). “I recenti arrivi”, scrive l’Unhcr, “dimostrano la fuga da una campagna di reclutamento obbligatoria e da un servizio militare spesso a tempo indeterminato”.

Aggiungerei che questi ragazzi, forse senza esserne a conoscenza, scappano anche dalle sanzioni imposte al loro paese nel 2009-2011 e finora confermate, pur senza prove, goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di problemi: mancanza di lavoro, ricostruzione incompleta, privatizzazioni appena avviate.

In realtà, spiega un’ambasciata occidentale intervistata ad Asmara nell’ottobre 2014 dal Danish Immigration Service,(DIS) gli eritrei non rimangono a lungo nei campi profughi etiopici perché lì non possono lavorare, solo pochissimi vanno a scuola e un numero irrisorio può continuare gli studi all’Università.
Quindi il campo rappresenta il primo transito per poi finire nelle maglie del lavoro nero etiopico o, più spesso, pagare per il viaggio verso l’Europa.

Viaggio che prevede, come seconda tappa, la Libia.
Nella fuga dei ragazzi eritrei push e pull factors si mischiano.
Sicuramente il servizio nazionale, inviso ai giovani che non vogliono più lavorare per uno stato che paga poco e dilata i tempi del benessere sperato, agisce da fattore di spinta, però la presenza all’estero di una diaspora numerosissima, che ha abbandonato il paese fin dalla fine della seconda guerra mondiale, trovando lavoro in Europa o in America, è un pull factor. Spesso sono i parenti che cedono alle richieste dei ragazzi e li aiutano pagando, nella speranza di dar loro un futuro migliore.

Scrive il DIS nel rapporto sulla situazione in Eritrea:“un medico guadagna 1.700 Nakfa, un ministro 4.000 un rifugiato riceve dall’assistenza tra i 500 e i 600 euro che, tradotti in Nakfa, vogliono dire, a seconda del cambio, tra le 5.000 e le 8.000 Nakfa.

Dunque l’Eritrea non può reggere il paragone con l’Occidente.

In Eritrea ragazzi e ragazze a 17 anni completano l’iter scolastico a Sawa, che non è il nome di una prigione né di una caserma, ma quello del complesso dove, dopo un training militare di sei mesi, le strade degli studenti si biforcano, chi ha ottenuto un brillante risultato scolastico continuerà gli studi, altrimenti, dopo un corso di preparazione professionale, lavorerà per il Servizio Nazionale. In entrambi i casi il lavoro, sia intellettuale sia manuale è pagato dallo stato, quindi poco.

Il Servizio Nazionale non è l’arruolamento dei ragazzi in un esercito permanente ma un servizio civile cominciato dopo l’indipendenza con lo scopo di ricostruire tutto quello che nel paese trent’anni di lotta (1961-1991) avevano distrutto, strade, scuole, ospedali, case.

Chi ha combattuto ha accettato il costo dell’autodeterminazione, della self reliance. Non volevano che un Occidente ricco arrivasse con programmi e progetti che il paese avrebbe solo dovuto eseguire. I fatti hanno dimostrato la ragione di questa scelta politica perché l’aiuto calato dall’alto non solo non serve ma, come si è visto, arricchisce più chi dà rispetto a chi riceve. L’Eritrea ha voluto evitare l’abitudine all’aiuto, un’assuefazione che blocca qualsiasi iniziativa.

Così però ha imboccato una via più lunga, difficile e in salita.

Nel paese non c’è corruzione ma l’attuale classe politica sta vivendo una frattura generazionale.
La generazione che fugge è quella che, per la prima volta nella storia, ha ereditato una bandiera, è andata più a lungo a scuola, è stata vaccinata, è più sana e perfino più alta, una generazione che vede la differenza tra le difficoltà del proprio paese e il benessere occidentale.

Sono ragazzi stanchi di pensare che l’Etiopia sia il loro problema, meno nazionalisti dei padri, guardano CNN, BBC, si connettono a internet, parlano con chi vive altrove, con chi torna per le vacanze estive portando con sé l’immagine di un altro mondo possibile, non così lontano.

Fin qui la storia di un paese giovane, con un’indipendenza appena conquistata, una pace interrotta troppo presto, un grande vicino ostile aiutato e sostenuto dall’Occidente.
Al quadro però bisogna aggiungere due nuovi elementi, il traffico di uomini e la guerra mediatica.

Gli eritrei che lasciano per povertà il paese, oltre a essere un cruccio per l’Eritrea, sono diventati il simbolo della persecuzione politica.

Le loro dichiarazioni, riprese e amplificate dai media di tutto il mondo, forniscono dettagli raccapriccianti, dipingono uno scenario cupo, salvo poi scoprire, ma solo se si è addetti ai lavori, che se si dichiarano perseguitati per motivi politici o religiosi avranno rifugio e lavoro.
L’incognita della fuga, quindi, si limita al viaggio, una volta arrivati, compilato un modulo, avranno asilo politico, così ha stabilito l’Europa, almeno finora.

Prassi che ha innescato una corsa, altrimenti incomprensibile, da parte di somali, sudanesi, etiopici e persino kenioti a dichiararsi eritrei, come raccontano i mediatori culturali eritrei che aiutano nelle procedure.

Un pull factor verso la fuga, pazienza se al costo di molte vite che si perderanno in mare, tanto, in caso di naufragio, i media incolperanno l’Eritrea di uccidere i propri figli.
Addirittura lo scorso aprile, a Ginevra, il portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, Adrian Edwards, durante una conferenza stampa, riferendosi al naufragio che ha causato 850 vittime, ha detto che 350 erano eritree. Ma non era vero, i tre superstiti eritrei ascoltati nel centro di Mineo diranno, qualche giorno dopo, che erano gli unici a bordo.

Perché questo gioco al massacro? Non che si debba essere felici se a morire sono un uomo o una donna somala piuttosto che dell’Eritrea, ma perché nella triste graduatoria dei migranti l’Eritrea, piccolo paese con sei milioni di abitanti, mantiene il vertice della classifica?

Torniamo ai viaggi. Chi li organizza? Chi mette uomini e donne sui pick-up con i quali attraverseranno il deserto per arrivare in Libia, chi li imbarcherà per farli arrivare in Italia? Chi terrà i contatti e la contabilità, nomi e pagamenti? Molta gente, un ricco business ancora sommerso.

La tragedia di Lampedusa, però, ha svelato alcuni nomi, quello di Ermias Ghermay per esempio, un etiope con il compito di raggruppare i migranti a Khartoum per condurli a Tripoli e tenerli nascosti, praticamente prigionieri, fino al momento dell’imbarco. Ermias ha svolto un ruolo fondamentale, conosceva ogni persona cui dava un codice e teneva la contabilità delle rate pagate dai parenti per le tappe del viaggio. Un’impresa di famiglia che ha fruttato molti soldi a lui che si è occupato del traffico in Sicilia e al fratello Asghedom, capo assoluto del traffico libico. Ad aprire uno spiraglio sul network è stato un viaggio andato male, molti altri però erano andati a buon fine, tutti condotti nello stesso modo.

Ma come avvengono i contatti fra trafficanti e migranti?
Via smartphone.
Da un’inchiesta pubblicata lo scorso 25 agosto sul New York Times emerge che i nuovi migranti per il loro viaggio devono avere cibo, rifugio e, soprattutto, un telefonino. Secondo l’inchiesta in questo modo, grazie a mappe e coordinate gps, i migranti riusciranno a tagliare il costo dell’accompagnamento fornito dai trafficanti.

Finora però le bande criminali, per i contatti tra loro e con i “clienti” hanno usato telefoni satellitari, oppure comunicazioni internet via Skype o Viber, un modo questo che ha permesso alla direzione distrettuale antimafia della Procura della Repubblica di Palermo d’intercettare le conversazioni e avviare le indagini Glauco e Glauco 1, di cui per la verità al momento si è parlato poco.

Il punto cruciale del viaggio dei migranti è il passaggio via mare dalla Libia verso le coste europee, prima fra tutte quella italiana.
Dopo la tragedia di Lampedusa, sull’onda dell’emotività e sotto lo sguardo internazionale, l’Italia ha varato l’operazione Mare Nostrum che, garantendo soccorso in mare, ha salvato migliaia di migranti, con il perverso effetto però d’incoraggiarne le partenze. Operazione costosa sostituita, tra le polemiche, dalla più economica Triton, pagata dall’Europa che però si limita a pattugliare le coste, lasciando il salvataggio in mare aperto alle capitanerie di competenza.

Ma come lanciano la richiesta di aiuto i migranti? Con un telefono satellitare consegnato loro sulla nave “madre” che li porta fino al termine delle acque libiche, per poi metterli su “carrette” a perdere guidate da scafisti, qualche volta migranti che, sapendo qualcosa di mare, ottengono uno sconto sul passaggio.

Limes, rivista di geopolitica, nel numero dedicato all’immigrazione, scrive che pare “ci siano ancora navi da guerra europee stazionanti di fronte alle acque territoriali libiche che verrebbero contattate da chi è a bordo dei barconi da soccorrere, circostanza che starebbe trasformando prestigiose marine alleate in altrettanti subcontraenti di fatto delle organizzazioni criminali che gestiscono i flussi migratori”.

Ma non sarebbero gli unici e ricevere le chiamate di soccorso e a trasformarsi in “subcontraenti”.

Gli eritrei, da alcuni anni, chiamano un prete, don Mussie Zerai, dal 2006 a capo dell’ Agenzia Habesha che, sul motivo per cui i giovani scappano dall’Eritrea ha le idee chiare, non fuggono, dice, dalla povertà ma dall’ateismo di un “regime, il più sanguinario e totalitario dell’Africa dei nostri tempi,” una nuova “Corea del Nord”. Perciò Mussie Zerai ha deciso di sostituirsi ai canali umanitari che avrebbe voluto che l’Europa creasse, pensando, con un satellitare, di salvare le vite di eritrei (o etiopici), persone che hanno il suo numero, che lo chiamano dal barcone, ultima e pericolosa tappa del traffico, in modo che sia lui a inviare le coordinate per il soccorso.
E per questo lavoro è stato candidato al Premio Nobel per la Pace.

Le persone, certo, non nascono e non dovrebbero diventare “clandestine”,tuttavia se ciò accade, per tirarsi fuori dal guado, sono disposte a pagare l’infinita rete di uomini che manovra il traffico.

Prima ancora di arrivare in Italia i ragazzi eritrei sanno due cose, che per aggirare il trattato di Dublino non dovranno farsi riconoscere, cioè dare le proprie impronte digitali ed entrare nei centri d’accoglienza e che, in Italia, non c’è né lavoro né welfare, quindi il rifugio “politico” dovranno chiederlo altrove.

Le grandi città italiane in questi anni si sono riempite di “invisibili”, visibilissimi a tutti, soprattutto ai trafficanti.
Qualcuno ritirerà per loro, nei moltissimi money transfer aperti di recente, i soldi perché possano continuare il viaggio, fornendo un proprio documento e accontentandosi, in cambio, di un piccolo “dono”.
Altri invece si faranno pagare per accompagnarli in Svizzera, cioè a Pioltello, vicino a Milano, dove c’è un bel cartello “Svizzera”, naturalmente solo un’indicazione stradale.
E il business continua.

Lo scorso aprile Fabbrice Leggeri, direttore di Frontex, agenzia europea delle frontiere, ha dichiarato in un’intervista a Le Figaro che “i migranti che intraprendono la strada libica ormai arrivano dall’Africa, non più da Siria o Iraq, partono per motivi economici e possono essere rimandati a casa loro”.

La domanda però è: le migrazioni da paesi come l’Eritrea dove non c’è guerra ma povertà non potrebbero essere fermate, prima dei rimpatri, dell’identificazione negli hotspot, con investimenti che creino lavoro in quel paese?

L’Unione Europea recentemente ha deciso lo stanziamento di circa 300 milioni di euro per l’Eritrea, soldi destinati al suo sviluppo, al sostegno di sanità e agricoltura. Soldi che potrebbero creare posti di lavoro, che potrebbero permettere di costruire ancora dighe e micro invasi per trattenere l’acqua, preziosa per il paese quanto i giovani che ne rappresentano il futuro.

Soldi che potrebbero impedire molte morti in mare e che potrebbero distruggere la rete del traffico, satellitari compresi. Soldi che potrebbero sostenere il diritto di vivere a casa propria, perlomeno per quel 99,8 percento di giovani eritrei che, come ha scritto il DIS, citando un’ambasciata occidentale, scappa dalla povertà non dalla persecuzione religiosa o politica.

Marilena Dolce
@EritreaLive