28/03/2024
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©EritreaLive, Keren, Eritrea, il grande mercato del lunedì

I titoli di cronaca, le tragedie del mare, la paura dell’immigrato, della sua diversità, hanno creato in Europa, in questi ultimi anni, un’immagine sfuocata dell’Africa, un paese indistinto, povero, cui bisogna “donare” per tenerlo a distanza.

La realtà è diversa. I paesi africani oggi sono in forte espansione economica con un tasso di crescita intorno al 4,2% superiore al 3,8% dei BRICS

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha attestato per questi paesi una crescita del 6% nel 2014, contro un modesto 1,2%-2,0% per le economie più avanzate e un 4,5%-5,8% per quelle in via di sviluppo.

Nei prossimi anni un Paese su due, con una crescita positiva, sarà africano.

A Roma, per due giorni 26-28 novembre, Europa e Africa hanno parlato d’immigrazione e sviluppo durante il “Processo di Rabat” cui hanno partecipato 58 paesi.

Un modo per l’Unione Europea, durante il semestre italiano, di capire e mettere a fuoco problemi e prospettive di un continente formato da molti paesi, diversissimi tra loro, con una popolazione giovane e ottime prospettive di sviluppo.

L’impegno in Africa non è uguale per tutti i paesi. Gli investimenti italiani sono modesti, gli aiuti sotto la media Ocse e l’attenzione politica e istituzionale di retroguardia.

Per intendersi, gli Stati Uniti hanno aperto in Africa 47 sedi diplomatiche, la Francia 44, poco meno la Cina, il Brasile 32, l’India 26, l’Italia solo 19.

Però Federica Mogherini, Alto Rappresentante Pesc ha sottolineato, durante la conferenza stampa a Villa Madama, che all’Ue non mancheranno gli strumenti per una politica comune nei confronti dell’Africa, dal momento che esistono 140 sedi di rappresentanza delle ambasciate.

Alla prima conferenza del “Processo di Khartoum”, tema i flussi migratori, hanno partecipato oltre ai 28 stati membri dell’Ue, Libia, Egitto, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Kenya, Tunisia.

Gli incontri italiani sono stati organizzati congiuntamente dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dal Ministero degli Interni, dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza e dal Commissario europeo responsabile per le Migrazioni.

Obiettivo europeo è trovare, insieme con l’Africa, una soluzione alle tragedie dell’emigrazione, sgombrando il campo dall’idea che la questione riguardi solo l’Europa meridionale, geograficamente più vicina e raggiungibile, dove però i migranti non si vogliono fermare.

L’avviato Processo di Khartoum prende il nome dalla missione condotta in Sudan lo scorso luglio dal Vice Ministro degli Esteri, Lapo Pistelli che ha avuto il merito di aprire il dialogo con l’Africa Sub Sahariana, anche con alcuni paesi messi all’indice.

Una buona partenza se, come ha detto Federica Mogherini, è stato bene che il primo passo fosse quello di «mettere insieme paesi che trovano difficile, se non impossibile, comunicare tra loro» e affrontare il tema delle migrazioni «con le autorità dei paesi d’origine e di transito».

Speriamo che questo sia l’inizio di un nuovo “processo” e di una nuova “narrativa” sull’Africa, perché si vedano i problemi ma anche i risultati raggiunti.

In molti paesi Sub Sahariani si sta verificando una graduale riduzione della mortalità infantile e una lenta ma continua diffusione dell’alfabetizzazione. Il tasso di popolazione che vive con meno di due dollari al giorno è sceso dal 59,4% del 1993 al 47,5% del 2008. Tendenza confermata anche da alcuni dei paesi più popolosi della regione, come Etiopia, Nigeria, Sudafrica.

Gli spostamenti dei migranti, ha detto durante la conferenza stampa il Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, non possono essere lasciati «alla più macabra e terribile agenzia di viaggi del nostro tempo e della storia» mentre l’Europa non può occuparsi solo delle operazioni di salvataggio in mare, pur condotte con perizia e capacità da Mare Nostrum e Triton.

Bisogna intervenire prima, agire nei paesi d’origine.

Ecco perché è stata importante la presenza a Roma dei paesi da cui i migranti partono e di quelli da cui transitano. Un dialogo interno alla Ue sarebbe stato un monologo, espressione di paesi sicuri di sé che hanno “aiutato” l’Africa, in un tempo non troppo antico, colonizzandola.

La maggior parte dei migranti, secondo l’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), giungono da Siria ed Eritrea seguiti da Mali, Nigeria, Somalia, Egitto, arrivi causati da motivi differenti.

In Eritrea, paese dalla recentissima indipendenza (1993), il servizio nazionale che inizialmente durava 18 mesi è diventato, dopo il conflitto con l’Etiopia (1998-2000), lunghissimo, spezzando progetti e prospettive.

Federica Mogherini, in conferenza stampa, ha  detto di aver parlato di diritti umani, cioè del lungo servizio nazionale, con i rappresentanti istituzionali eritrei. Nelle stesse ore l’agenzia Ascanews, riportando fonti diplomatiche eritree, diramava una nota in cui si diceva che, durante gli incontri bilaterali con l’Italia, l’Eritrea ha dichiarato di voler riportare a 18 mesi il servizio nazionale.

Se così fosse, sarebbe un bel risultato per il “Processo di Khartoum”.

In questo modo l’Eritrea tenderebbe la mano ai giovani che abbandonano il paese per cercare altrove il futuro.

È uscito in questi giorni il report Eritrea-Drivers and Root Causes of Emigration, National Service and Possibility of Return frutto del lavoro sul campo condotto lo scorso ottobre dal Danish Immigration Service, nel quale si legge che chi ha disertato o non si è presentato per il servizio nazionale, se deciderà di rientrare in patria, non subirà rappresaglie o punizioni.

Il motivo principale però del prolungamento del servizio nazionale e della sua terribile ricaduta sulla vita dei giovani e della società è internazionale e non è ancora stato risolto.

Nel 2002 gli Accordi di Algeri, “definitivi e vincolanti” impongono all’Etiopia di lasciare la zona intorno a Badme, conteso territorio di confine che si stabilisce sia eritreo, ma ciò non accade, facendo piombare l’Eritrea in una situazione di “non pace non guerra” che ne rallenta lo sviluppo, creando profondo malessere.

In Italia, dice durante la conferenza stampa il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, «dal primo gennaio di quest’anno abbiamo avuto 162 mila sbarchi, mentre l’anno scorso erano stati circa 40 mila». I migranti arrivano al 90% dalla Libia «questo ci dà il senso del lungo viaggio che compiono nel corso del quale corrono i maggiori rischi».

Tre sono i punti cardini del Processo di Khartoum: lo sforzo comune dei paesi europei, il lavoro congiunto dei ministeri degli esteri e degli interni e l’analisi in ambito Ue del problema migrazioni, riconoscendone le molte componenti.

Per quanto riguarda i richiedenti asilo, il Processo di Khartoum ha votato all’unanimità l’apertura di nuovi campi profughi nei paesi disposti ad accoglierli, sotto la supervisione delle organizzazioni umanitarie internazionali, prima di tutto quella dei migranti, l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni)  e l’UNHCR.

Il Ministro Alfano, in conferenza stampa, per spiegare questo punto centrale parla di “resettlement” perché l’Europa possa avere “equa distribuzione” di migranti, accettando chi, secondo i trattati internazionali, ha diritto di chiedere asilo.

Ma oggi dove si trovano le persone scappate che cercano una vita nuova grazie all’asilo e ai corridoi umanitari?

In Etiopia ci sono quattro campi che accolgono 85 mila persone di cui 3.500 sono bambini. In Sudan ci sono i campi profughi di Shagaab e Wedi Serifay.

Il problema, però, è quello che succede in alcuni di questi campi. Molte persone sono cadute nella rete dei trafficanti proprio lì, dove avrebbero dovuto essere al sicuro.

La situazione del traffico di uomini, che ha come merce anche gli eritrei, è stata denunciata più volte e, durante la conferenza di Roma, l’ha fatto, nuovamente, il Ministro degli Esteri eritreo Osman Saleh.

Le migrazioni non si fermano impedendole o chiudendo le frontiere. Le persone vivranno a casa loro solo se cesseranno le guerre e se non avranno più fame.

Però un segnale congiunto euroafricano contro il business della migrazione, un segnale per smascherare situazioni solo apparentemente lecite e rendere impossibile la filiera del male, non può essere sottovalutato. Come non può essere derisa la presenza alla conferenza della Libia, perché il Processo di Khartoum non è il trattato di Amicizia Libia-Italia del 2008. E perché, ripetiamolo ancora una volta, la Libia è un nodo cruciale per il traffico di uomini.

Vorrei concludere con una citazione dello storico senegalese Cheik Anta Diop che, riferendosi al rapporto Africa-Europa aveva detto: «non abbiamo avuto lo stesso passato, avremo lo stesso futuro». Speriamo.

Marilena Dolce
@EritreaLive