28/03/2024
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Asmara, esterno del cimitero dei carri armati, © Bruno Zanzottera, Parallelozero

Asmara, esterno del cimitero dei carri armati, © Bruno Zanzottera, Parallelozero

Marzo, dal punto di vista mediatico e politico, per l’Eritrea è stato un mese denso di accadimenti.

La seconda settimana si è conclusa con il video reportage di Yalda Hakim per BBC Africa le cui immagini hanno mostrato il paese per quello che è, con la gente orgogliosa delle cose positive, dei traguardi raggiunti, della buona sanità.

I commenti però hanno delineato una situazione diversa, un paese nel quale, per abitudine, si tace.

Ad Asmara, con la troupe BBC, nessun passante, “37 su 37”, fermato nella centrale Harnet Avenue, ha voluto parlare, dicono durante il servizio.
Se ne conclude che il regime tappa la bocca.

Può essere.

Personalmente credo in un’ipotesi differente: la gente non si è fidata dell’utilizzo che la BBC avrebbe fatto delle loro parole, temendo una manipolazione di fatti e pensieri.

Gli eritrei, in verità, parlano con tutti, anche con i giornalisti “bianchi”.

Mi è capitato, a un banco del mercato di Taulud, che un gruppo di donne si lasciasse fotografare purché promettessi di scrivere che non mancava il cibo. Non volevano che dicessi che in Eritrea si muore per fame perché, spiegano, non è vero.

Se Yalda Hakim non fosse stata della BBC, nessun minder governativo le avrebbe impedito d’incontrare almeno un eritreo che le dicesse che il paese non funziona, definendo a chiare lettere il servizio nazionale “una ciambella avvelenata”, il motivo per cui i figli se ne vanno all’estero, qualche volta legalmente, spesso via deserto.

E qui si presenta il vero nodo: perché i giovani se ne vanno dal paese?

La Commissione d’Inchiesta sui Diritti Umani che si è riunita a Ginevra il 16 marzo scorso ha dato delle risposte.

Il responsabile, Mark Smith, presentando il risultato dell’indagine compiuta all’estero, non in Eritrea, dopo aver ascoltato 400 richiedenti asilo, molti esperti, i rappresentanti di varie organizzazioni governative e non, ha detto che i giovani scappano dalla «mancanza di speranze per il futuro», costretti a lavorare sottopagati e per un tempo infinito per il servizio nazionale. Scappano anche dalla mancanza di libertà d’espressione, per militare in un partito, per professare la propria religione.

Numericamente gli eritrei che abbandonano il paese sono di poco inferiori ai siriani che scappano dalla guerra.

Nel paese non c’è uno stato di diritto, spiega Mark Smith. Peggio: il governo usa la situazione “no peace no war”, come «pretesto» per creare un «limbo legale» e permettere l’assenza di diritti, cominciando da quelli umani. Capita molto spesso a «giovani, donne e anche bambini di finire in prigione» e lì morire dimenticati, a volte in container come quelli che il documentario della BBC ha mostrato al cimitero dei carri armati.

In quest’agghiacciante quadro non manca la violenza sessuale dei guardiani sulle donne detenute.

Chi ha stilato il rapporto non è stato in Eritrea, non ha parlato con nessuno che lì vive perché il governo non ha consentito alla commissione di Human Rights d’ispezionare il paese, non credendo alla buonafede dei presupposti.

Senza interpreti, ovviamente super partes, potrebbe essere stato difficile per la commissione capire persino la lingua dei testimoni, distinguere il tigrino dall’amarico, riconoscere se chi parla è eritreo oppure etiope. Perché se è pur vero che gli eritrei cercano un avvenire migliore all’estero, sperando nel permesso di soggiorno, bisogna aggiungere che non sono gli unici. Anche gli etiopi cercano permessi e sussidi, ben sapendo di poterli ottenere più facilmente facendo credere di essere eritrei in fuga dalla “prigione a cielo aperto,” per citare Human Rights Watch.

Dall’Africa che pure è un continente con grandi possibilità, si continua a emigrare.

Molti giovani non hanno tempo di attendere il futuro migliore, non sono rincuorati da tassi medi di crescita superiori a quelli dei BRICS, sperano invece di trovare all’estero un’America dove vivere nel benessere, senza guerra e precarietà.

Ma perché gli eritrei, più degli altri africani, vogliono andarsene dall’Africa e dal loro paese?

Oltre ai motivi elencati a Ginevra dalla commissione, ce ne sono altri dichiarati al DIS (Danish Immigration Service) lo scorso ottobre quando, in Eritrea, sono state raccolte testimonianze occidentali sulla situazione interna e sull’emigrazione.  Un’ambasciata ha detto che «il 99,9% dei giovani eritrei che richiedono asilo in Europa sono rifugiati economici» , cioè lasciano il paese perché vogliono vivere meglio, mentre un’agenzia delle Nazioni Unite ha precisato che «quasi nessuno lascia il paese per motivi politici».

Ma se “i richiedenti asilo” dichiarassero di essere emigranti in cerca di lavoro nessuno li accoglierebbe, perché per essere accolti dovrebbero averlo il lavoro. Così il cane si morde la coda e il richiedente asilo per non essere rifiutato, per non diventare “clandestino” dichiarerà di essere scappato per motivi politici non economici, visto che il suo paese, senza guerra, dall’Occidente è considerato una “Corea del Nord” africana.

Ma l’Eritrea, paese privo di corruzione, dove c’è la capacità di «fare molto con poco» , come ha dichiarato più volte Christine Umutoni, responsabile UNDP (United Nations Development Programme) di Asmara, perché ha un’economia in affanno? Perché non riesce a dar lavoro ai giovani, a farli vivere come vorrebbero?

Il motivo centrale è che il paese ha perso, nel 2002, il diritto alla pace.

Gli Accordi di Algeri che avrebbero dovuto porre fine a una guerra (1998-2000) formalmente di frontiere e che avevano stabilito che l’area contesa, intorno a Badme,  fosse eritrea, sono stati ignorati dall’Etiopia cui però la comunità internazionale non ha imposto di accettare il verdetto, «definitivo e vincolante».

Nel 2005 l’ONU che aveva tergiversato sull’atteggiamento dell’Etiopia, prende posizione emettendo sanzioni contro Asmara, che aveva chiesto il ritiro dei caschi blu dalla zona “cuscinetto” tra Eritrea ed Etiopia, visto che l’accordo ormai era carta straccia.

Oltre alla disputa di confine, osservando le complicate vicende politiche, sembrerebbe che per l’Etiopia non sia stato facile accettare l’indipendenza dell’Eritrea, il cui allontanamento sociale, politico ed economico le avrebbe fatto perdere un difficile equilibrio interno, etnico e politico.

Diversamente dall’Etiopia, l’Eritrea ha consolidato durante i trent’anni di lotta per l’indipendenza (1961-1991) un forte sentimento di nazione, riuscendo a far convergere etnie, lingue e religioni differenti, unendole contro forze centrifughe che avrebbero potuto frantumare il paese.

La tolleranza verso tutte le religioni, infatti, è un aspetto centrale della vita sociale eritrea. Impossibile immaginare che un giovane scappi dal paese perché non è accettato il suo essere musulmano, più facile incontrarlo al matrimonio di un’amica cristiana.

In Eritrea non esiste una religione di stato ed è questa laicità di fondo  che permette a ciascuno di professare la propria religione, purché non vada contro le altre.

Quanto alle alleanze internazionali, se dal 1993 al 1998 gli Stati Uniti erano rimasti alla finestra, osservando con interesse l’Eritrea, paese da poco indipendente, nel 2002, nonostante il voltafaccia etiope sugli Accordi di Algeri, decideranno di sostenere l’Etiopia e la sua politica nel Corno d’Africa.

Questo è il motivo per cui, nonostante il raggiungimento d’importanti Obiettivi del Millennio (MDG) in campo sanitario, scolastico, di pari opportunità, l’economia eritrea ristagna, appesantita dalle sanzioni stabilite dall’ONU nel 2009 e nel 2011 con l’accusa, mai provata, di aiuto ad Al Shabaab, l’organizzazione fondamentalista somala.

L’Eritrea attaccata sui diritti umani ha visto salire sul banco degli imputati il servizio nazionale, peraltro recentemente riportato a 18 mesi.

Del servizio nazionale molte volte gli eritrei hanno spiegato il motivo e la duplice funzione, militare e civile. Sicuramente nel 1993 è stato uno strumento fondamentale per far ripartire il paese, tuttavia oggi da più parti si ammette che assorba troppo tempo e lavoro, scontentando i cittadini, i quali però, va detto, hanno potuto studiare gratuitamente, più dei loro padri e dei loro nonni. E di loro sono senz’altro più liberi.

Paradossalmente, visti dall’esterno, i giovani eritrei che oggi stanno abbandonando il paese sono il miglior risultato dell’indipendenza. Nati dopo il 1991, più sani, più alti, più istruiti, desidererebbero avere in patria benessere e vita occidentale, almeno nella forma.

Ma lo stato cosa fa? Prima prepara quella che una volta si sarebbe chiamata la “futura classe dirigente” poi li espelle, uccidendoli all’interno o mandandoli a morire nel deserto o in mare?

Credo che solo chi non è mai stato in Eritrea possa pensare che in un paese geograficamente piccolo e molto unito, si possano, senza reazione, uccidere figli e nipoti dimenticandoli in container metallici o in prigioni sotterranee.

Ancora ricordo il tassista che, mentre mi accompagnava al cimitero dei carri armati, mi parlava della figlia che quell’anno era entrata a Sawa, rammaricandosi che non volesse vedere lui e la moglie durante i fine settimana, per non essere diversa dalle altre ragazze i cui genitori non potevano farlo. Così lui ha trovato la soluzione, convincendola che portare da mangiare non solo per lei ma anche per le amiche, sarebbe stata una bella cosa. E aveva concluso, sorridendo, che la moglie, felice, passava la settimana a cucinare.

Parlando ancora di diritti, questa volta delle donne, il 20 marzo scorso a New York, in occasione dell’evento a latere della 59°commissione sulla condizione delle donne, riferendosi all’Eritrea, i relatori hanno elogiato i risultati raggiunti grazie all’importante presenza dell’unione delle donne, (NUEW) nella società eritrea.

Si è detto che la via intrapresa dal paese è quella giusta, perché le donne che parteciperanno alla sua vita politica saranno sempre più numerose.

L’Eritrea, dunque, nonostante un’oggettiva situazione di “no peace no war” dovrebbe mostrare più spesso, anche alla stampa, i buoni risultati raggiunti in molti campi. La stampa racconterebbe a modo suo quello che vede o quello che avrebbe voluto vedere, rammaricandosi, forse, di non aver avuto il permesso, come del resto in quasi tutti i paesi del mondo, di visitare carceri e caserme.

In questo modo però sarebbe più difficile, anche per i giornali etiopi, costruire notizie false come quella del 22 marzo su raid aerei contro miniere o altri obiettivi militari. Notizia, in verità, quasi ignorata dalle testate internazionali e corredata da punti interrogativi anche da quelle più embedded. Diverso l’atteggiamento dei media etiopi che, in amarico, hanno parlato enfaticamente di vittoria contro obiettivi nemici.

Una battaglia mediatica zittita da un breve comunicato stampa della Nevsun, la società canadese che detiene il 60% delle azioni della miniera di Bisha, mentre il restante è gestito dall’Eritrean National Mining, società di stato eritrea.

Nel comunicato la società riferisce di aver subito un «atto di vandalismo» che non ha causato danni significativi a cose e persone, aggiungendo che avrebbero aumentato la sorveglianza e che lo stabilimento, fermo per un altro intervento di manutenzione, avrebbe ripreso a funzionare a fine marzo.

E così il mese di marzo concludendosi, porterà con sé notizie false e attacchi contro un paese che non rispetterebbe i diritti.

In corner, però, il l 31 partirà dalla Svezia un giro ciclistico pro Eritrea che consegnerà a Ginevra, nella sede della Nazioni Unite, una lettera nella quale si chiede, ancora una volta,  che la comunità internazionale faccia rispettare all’Etiopia quanto deciso dalla Commissione Confini Eritrea-Etiopia (EEBC) tredici anni fa. Venticinque ciclisti percorreranno 1.700 chilometri per affermare il diritto dell’Eritrea al riconoscimento dei confini, un diritto dimenticato, grande assente nella relazione della commissione d’inchiesta sui diritti umani.

Marilena Dolce
@EritreaLive