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Porta Venezia, l’Eritrea a Milano

Marilena Dolce
25/08/15
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Intervista con Alan Maglio e Medhin Paolos, nella foto sopra, regista e autori di “Asmarina” film documentario.

In un bar, naturalmente eritreo, nella zona milanese di Porta Venezia, incontro Alan Maglio e Medhin Paolos, regista e sceneggiatrice del film-documentario “Asmarina” presentato a Milano durante il 25° Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina, per parlare con loro del film ma anche del loro legame con Eritrea ed Etiopia.

Qual è l’ultima volta che siete stati ad Asmara? Il film è stato un modo per ritrovare le vostre radici?

Medhin:
Sono figlia d’immigrati eritrei. I miei genitori sono arrivati a Milano nei primi anni Settanta. Il film è un tributo per tenere insieme ciò che ha tenuto insieme la nostra comunità in Italia, a Milano e Bologna, città importante per tutti gli eritrei.
I miei sono arrivati negli anni Settanta, io sono nata qui, c’è gente invece che sta arrivando adesso. Sono molte parti che non è semplice tenere insieme. “Asmarina” è un film stratificato, difficile sintetizzarlo, com’è difficile sintetizzare una comunità.

Nel film scorre una linea del tempo: il colonialismo dell’ANRRA (Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa), quello di “Asmarina”, poi Asli, una giovane donna etiopica-milanese che commenta orgogliosa la vittoria ad Adua. Pensate che molte pagine di storia coloniale debbano ancora essere scritte?

Alan:
Il senso di nostalgia del colonialismo, i ricordi, lui (ndr, la testimonianza del rappresentante ANRRA) li ha messo sul piatto, come altre persone hanno messo i propri. Lui appare una memoria storica perché nel film è intervistato in ufficio, con tutte le targhe dietro, perciò sembra avere un’aura diversa ma in realtà è una persona che ci racconta la sua esperienza, come ha vissuto quel momento storico.
A me è piaciuto il contributo personale offerto al film. La parte italiana era imprescindibile per creare una linea del tempo, delle generazioni.

E l’affermazione di Asli sulla vittoria di Adua pensate riempia una pagina bianca?

Alan:
Bianca no, però forse c’era solo la storia ufficiale, da scuola media. Noi abbiamo voluto mettere i fatti alla prova del ricordo, chiedendo alla gente e mettendo fianco a fianco tutte le posizioni diverse, ricordi che stanno vicini e convivono. Ognuno ha una percezione storica e ricordi diversi e anche il fatto di raccontare questa diversità vuol dire che non c’è soltanto un libro scolastico che ti racconta dalla A alla Z com’è andata e chi ha vinto e chi ha perso, chi aveva ragione ma che anche i ricordi che possono allargare la storia, possono essere raccontati e interpretati da più punti, forse questa è la ricchezza dell’inchiesta, non avere solo una parte.

Secondo voi, nel film, si nota questa pluralità di punti di vista?

Medhin:
Penso di sì. Non sei la prima che ci ha fatto queste osservazioni.
Non è un documentario, non vuole essere didascalico, con date esatte, però ti fa capire. Asli ha tirato fuori questi argomenti. Dove affondano le radici di una persona lo si può capire anche così, poi c’è molto altro nella storia d’Etiopia. Questo è solo un esempio che ti fa capire dove uno affonda il proprio orgoglio.

Continuiamo con la linea del tempo. Dopo il colonialismo italiano (1941) e l’amministrazione inglese, l’Eritrea subisce (1950) la federazione e l’annessione all’Etiopia di Heilè Selassiè, infine (1970) la dittatura di Menghistu. Sono questi gli anni in cui gli eritrei emigrano nei paesi vicini e verso l’Italia, arrivando a Porta Venezia?

Medhin:
Porta Venezia all’inizio è stato un caso. Chi arrivava apriva ristoranti e negozi. Le persone tendono ad andare dove ci sono le persone più simili, così sono arrivati qui anche gli altri.Alan:
Molti ci hanno detto che la chiesa di Viale Piave (ndr, Padri Cappuccini) è stata il punto di riferimento di Porta Venezia perché abbastanza vicina. La gente ha cominciato a venire qua perché era la chiesa dove c’era Padre Marino.

Molte donne trovarono lavoro come domestiche?

Medhin:
Molte arrivavano già con un documento per lavorare. Mia mamma per esempio è arrivata così.
Però non lavorava a Porta Venezia.
La nostra comunità era in Via Kramer (ndr, la Chiesa dei Cappuccini ancora oggi ha nella via una mensa per i poveri e per gli immigrati), quello era il nostro centro.

La lotta per l’indipendenza, come si racconta nel film, in Italia avrà il quartier generale a Bologna. L’estate scorsa l’Eritrea ha festeggiato quarant’anni di solidarietà con una città che per un po’ è stata la sua capitale. Erano presenti più di diecimila persone arrivate da tutte le parti del mondo. Come mai, nel film, non si vede questa festa?

Medhin:
I motivi sono stati, in parte, pratici. Ero a Bologna e stavo andando dalla parte della protesta, (ndr, durante il Festival, al di fuori dei cancelli, è stata organizzata una manifestazione di protesta), invece sono finita all’ingresso principale e non mi hanno fatta entrare. Eravamo lì, senza videocamera al seguito, non avevo microfoni, non sono una giornalista né ho l’aria bellicosa, non faccio parte di organizzazioni dell’opposizione, anche se si può pensare diversamente. Mi sono avvicinata, c’era la security. Non avevo intenzione di entrare, però sono stata vista e sai perché non mi hanno fatto entrare? C’era la security del Festival ma per fortuna, devo dire, c’era anche la DIGOS. Cercali online, quelli della sicurezza eritrea fanno paura. (ndr, articolo di Martin Plaut )
Non ci hanno fatto entrare perché ci hanno riconosciuto come “volontari di Porta Venezia”. (ndr, Porta Venezia è in questi anni punto di arrivo e smistamento per molti eritrei-etiopi che passano da Milano in attesa di andare in Europa, quindi non vogliono essere identificati).

Vi hanno detto questo?

Medhin:
Lo so.
La persone che era lì io l’ho riconosciuta, era uno di Milano che mi aveva vista con i ragazzi in Porta Venezia. Non c’erano motivi diversi, non stavo cercando d’entrare senza biglietto. Per fortuna c’era la DIGOS, io ho continuato la mia strada…
Quindi quella che viene chiamata festa, che a te fanno vedere così, per altri è una cosa diversa.

Al Festival ho intervistato persone arrivate da tutte le parti del mondo, orgogliosi di ritrovarsi, di essere eritrei, di aver combattuto per l’indipendenza…

Medhin:
Assolutamente, se te la presentano come festa…ma una situazione così, mentre la tua stessa comunità è in grave difficoltà…

Alan:
In parallelo al festival avrebbe dovuto esserci una manifestazione nel quartiere di Porta Venezia, tre giorni, un avvicinamento della comunità, tutto è stato annullato per l’emergenza sbarchi. La stessa amministrazione di Bologna aveva dato il patrocinio inizialmente, poi si sono ritirati…

L’amministrazione comunale di Bologna era e rimane amica dell’Eritrea…

Medhin:
Sono d’accodo. L’amministrazione comunale di Bologna però ha tenuto il piede in due scarpe. La stessa cosa succede a livello nazionale, l’Italia tiene il piede in due scarpe con l’Eritrea.

Chi erano le persone al di fuori dei cancelli? Quale contestazione mostrate nel film?

Alan:
È una contestazione dello status quo. Una contestazione dei rappresentanti politici che festeggiano un percorso che ha perso ora quello che era stato l’intento. Ci tengo a dire una cosa: criticare la situazione presente, anche mostrarlo, non significa delegittimare quello che è stato il percorso che le persone hanno fatto, lo sforzo della loro vita, trent’anni d’impegno per raggiungere il risultato, (ndr, lotta per l’indipendenza 1961-1991). Noi non ridiamo di questo, non lo contestiamo, non vogliamo sminuire l’importanza di quel percorso. Contestiamo il risultato mal gestito di quella lotta.

Medhin:
C’è un momento per festeggiare e un momento in cui rimboccarsi le maniche e fare qualcosa per la tua gente.

Nella festa ho visto tutti e due i momenti, la gente che festeggiava ha lavorato e continua a lavorare per il paese…

Medhin:
No, perché lì si stava celebrando esattamente quella cosa che è il problema. Si festeggiava quello da cui la gente scappa, anche se i singoli partecipanti erano lì per la festa, che è comprensibilissimo, come anche l’orgoglio nazionale.

Alan:
L’orgoglio nazionale però ce l’hanno fortissimo anche le persone che contestavano fuori dai cancelli…

Medhin:
Nel film il giovane che è scappato dal suo paese e che ora vive in Italia dice: “l’amore per il paese c’è ancora”.

Alan:
Anche fuori dai cancelli ci sono persone che hanno lottato per trent’anni.

Dunque chi ha combattuto per l’indipendenza del paese, durante il Festival di Bologna, era sia dentro sia fuori i cancelli?

Medhin:
Questo sì, però c’è chi ha deciso di chiudere gli occhi e far finta che la vittoria sia l’indipendenza…Alan:
Come se la storia si fosse cristallizzata…Medhin:
E non vede la parte fino a oggi. Però che fai?

Alan:
Oggi ci sono nuove generazioni che devono fare i conti con il presente. È diverso avere 60 anni e averne 20… chi ne ha 60 si adagia su qualcosa che ha conquistato con grandissimo sforzo, chi ne ha 20 forse ha bisogno di altre cose, una forma di affermazione.

Al Festival c’erano seconde, terze generazioni, tradizione e innovazione, radici e futuro. Il Festival ha avuto molte anime, una grande forza. Era così anche all’esterno? Mi era sembrata molto presente la contestazione italiana…

Medhin:
Questo sì. Anche dentro però…

No. Dentro è stata una festa eritrea, pochissimi gli stranieri accolti come ospiti. All’esterno dei cancelli ho parlato con Dania Avallone che contestava il Festival…

Medhin:
E va bene, lei però è un’attivista, ha i suoi obiettivi. Lei parla per sé e per la sua organizzazione…

Non credete sia stato terribile portare bare di cartone, simbolo delle tragedie del mare?

Medhin:
Però se quell’immagine è inquietante, la realtà è peggio.

Perché cercare di rovinare la festa alle persone con un pugno nello stomaco, una bara di cartone?

Medhin:
È un pugno nello stomaco quando uccidi persone tutti i giorni. Magari proprio i nipoti di quelle persone che entravano al Festival. Non si può far finta di niente…

Le persone che stavano festeggiando ben conoscono quel dolore…

Medhin:
La mia domanda allora è, se lo sai, se soffri, perché sostieni quella cosa lì…

In che senso “sostenere”?

Medhin:
Se tutti pagano, è un aiuto politico. I soldi che tutte le famiglie mandano al paese, le rimesse, vanno ai cittadini ma i soldi del festival non vanno nelle tasche dei cittadini, a favore del paese. È abbastanza chiaro, se andassero dove dovrebbero andare ci sarebbe questa situazione?

Tu dici la tassa del 2%?

Medhin:
Sì, quella non è una tassa a favore del paese ma a favore dei militari che sono al governo. Questo non lo dico io, sono i fatti che lo dicono.

Secondo te è un governo corrotto?

Medhin:
È uscito un articolo di cui non vorrei dare il link per non sbagliare.
Io non so tutto. Io mi chiedo perché i figli di determinati politici in Eritrea non fanno la vita che è richiesta di fare a tutti. Io so che non la farei.

Tu dici che i figli dei politici hanno benefici? Ci sono privilegi?

Medhin:
Lo negano, magari fanno pure la foto con l’uniforme, però fanno un’altra vita. Certo su questo non ho dati perciò non ci metto la firma ma è abbastanza evidente.

Nel film si vedono tanti momenti festosi, abiti della tradizione dell’altopiano, cerimonie religiose copte. Però l’Eritrea ha molte e diverse etnie che non compaiono nel film e circa metà della popolazione è musulmana, come mai quest’assenza? Non sono presenti a Porta Venezia?

Alan:
Sì, non ci sono a Porta Venezia e noi abbiamo lavorato a Milano.

Medhin:
Sì, è esattamente questo il motivo.

A Milano allora la comunità presente è quella cristiano-copta dell’altopiano?

Medhin:
Per la maggior parte sì, come ci sono più eritrei che non etiopici, eppure nel mondo ci sono più etiopici.
Qui, storicamente, i numeri sono diversi perché gli arrivi sono stati diversi.
Molti poi sono misti…
Nel film c’è l’altopiano perché è quello che abbiamo trovato qua.

Il vostro “Asmarina” perciò è l’Eritrea di Porta Venezia, non l’Eritrea paese?

Medhin:
Esattamente.

Alan:
È un film girato a Milano.

Nel film un giovane racconta il suo viaggio dall’Eritrea verso l’Italia, passando dalla Libia…

Alan:
Lo presentiamo come una persona che ha fatto quel percorso. In realtà lui, come si capisce per il buon italiano che parla, è arrivato qui alcuni anni fa…nessuno nel film dice che è appena arrivato…Lui è qui da anni.

Questo ragazzo riferendosi alla situazione politica eritrea dice che a Porta Venezia, vivono tre gruppi di eritrei, i filo governativi, quelli contro il governo e quelli che si barcamenano…

Alan:
Sì, lui veramente dice: “quelli che stanno in mezzo, che non vogliono parlare e neanche appoggiare”.

Medhin:
E probabilmente sono molti di quelli che hai visto al festival e che sicuramente sono la maggior parte…alcuni per paura, altri per opportunismo.

O forse sono persone più interessate alla società civile?

Medhin:
Queste persone non dovrebbero far finta di non vedere, poi succede un 3 ottobre (ndr, tragedia di Lampedusa) e tutti a fare la marcia, giusto commemorare i morti, però bisogna occuparsi dei vivi.
Su centoventi, venti ce la fanno ma si piangono i cento morti e i venti vivi si lasciano in strada?

Torniamo al sentimento di orgoglio e appartenenza. Mi è capitato al mercato di Taulud, a Massawa, d’intervistare e fotografare alcune donne che vendevano frutta e verdura. All’improvviso una di loro mi ha detto, parlando anche in nome delle altre, di scrivere che nel loro paese non si muore di fame…

Medhin:
Perché al mercato vanno quelli che hanno più soldi…

Ma loro vendevano, non erano clienti…

Medhin:
Sì, sì, va bene, non vivo lì.

Alan:
L’Africa risente di un etnocentrismo europeo. Che ti dicano di scrivere che non c’è fame, ci sta… non vogliono essere rappresentati per quello che non sono. Però a prescinde dall’Eritrea…

Riprendiamo il discorso del giovane arrivato dalla Libia, lui nel film dice di essere uscito dal paese per la povertà e per la dittatura?

Alan:
No, lui non dice per la povertà.
Ha studiato matematica all’università, non è un problema di povertà il suo. Dice: “Non avrei mai creduto di dover andare via dal mio paese. Quando c’è stata l’indipendenza (ndr, 1991-1993) i primi anni, (ndr, 1993-1998, scoppio guerra Eritrea-Etiopia) andavano bene, anzi c’era la sensazione che avrei potuto fare delle grandi cose per il mio paese indipendente. Però è successo che devo scappare e questo dover scappare è causato dalla situazione politica, non dalla povertà”.
Nelle sue parole c’è questo.
Le cose che si aspettava e non avvengono non possono avvenire per il governo che c’è.
Lui dice che in Eritrea “fanno di te ciò che vogliono”. Lui è stato in carcere, lo dice nel film. Hanno preso dei gruppi di persone tra cui lui e li hanno messi 6 mesi in carcere…

Per quale motivo?

Alan:
Non lo dice, dice: “Così”.
Quindi il problema da cui lui scappa è un problema politico.
Non è un problema di vita sociale o di condizioni sociali, è proprio un problema politico.
In particolare dice che non può vivere in un paese in cui si sente sotto uno stato mafioso. Non c’è un equivoco in questo senso. Lui è messo bene, meglio di altri, è andato all’università.
Se scappa, scappa da una realtà del genere, e ha un problema diretto, viene messo in carcere per sei mesi…

Per motivi politici?

Alan:
Scopre il paese sulla sua pelle, non in modo idealistico. Scappa per la propria sicurezza e perché non gli va di vivere in un contesto dove possono accadere queste cose…

Eritrei/Etiopici non hanno guerra o calamità naturali, cosa devono dichiarare, in assenza di canali umanitari, per ottenere lo status di rifugiati?

Medhin:
Proprio perché è risaputo, a livello internazionale, qual è la situazione in Eritrea le persone che da lì arrivano sono accolte dai paesi europei, come la Germania, per esempio. Non sono rispedite indietro. Se l’Eritrea fosse un paese in un’altra situazione i paesi li rimanderebbero indietro.

La chiusura delle frontiere via terra ha la colpa di aver creato il traffico di uomini e la morte in mare…

Medhin:
Il canale umanitario risolverebbe…

Secondo voi se potessero vivere meglio in patria i ragazzi eritrei tornerebbero a casa?

Alan:
Se cambiasse la situazione, non solo un cambio di governo ma anche, nell’arco di anni, un cambiamento totale…
Se uscissero le persone in carcere…

Medhin:
Una delle persone del documentario lo dice: “L’amore per il paese è rimasto”, quindi molti ci farebbero un pensiero…

Alan:
Soprattutto se è una situazione che funziona: i primi tornano, poi altri cominciano a tornare…Alan:
Siamo così scottati dal presente che, come tentavo di dire, prima che si guadagni una fiducia nei confronti di uno stato sociale ci vorrà del tempo…

Medhin:
In Eritrea ci sono generazioni cresciute sotto un certo tipo di mentalità, quindi anche da quel punto di vista lì è difficile anche solo sognare, magari perdi l’abitudine se vivi nell’oppressione. Sarebbe bello tornare in Eritrea sotto una stella diversa…Alan:
Pensiamo alla Somalia che è lì accanto…

Nel film parlate di cultura “habesha”, cosa significa?

Medhin:
Abbiamo tirato fuori questo termine perché è un termine che si usa molto, a cui però non tutti danno lo stesso significato.
Ad esempio io sono cresciuta qui e l’ho sempre sentito come un termine d’inclusione.
Noi qui siamo cresciuti misti, eritrei ed etiopici insieme. Pare che la radice della parola sia araba, perché i popoli dell’Egitto indicavano i popoli dell’Abissinia come Habesh, quindi noi ci siamo chiamati così. C’è chi dà un significato chi un altro. C’è chi vuole negare l’indipendenza dell’Eritrea e quindi dice habesha, per non dire eritreo, c’è chi al contrario si vuole definire eritreo: “siamo indipendenti, sono eritreo, quindi non sono habesha”. Io continuo a usarlo, non per negare o favorire ma per un senso d’inclusione anche se, tecnicamente, non lo sarebbero tutti gli etiopici. Alcune etnie, infatti, non sarebbero habesha ma non fa niente, per me rimane un termine d’inclusione.

Alan:
Nel film è un termine usato da una ragazza etiopica, la ragazza della società sportiva di calcio che pensa a un gemellaggio tra Addis Abeba e S. Alessandro, una polisportiva di Pavia.
Lei si sente habesha.

È una comunanza che non includerebbe tutti?

Medhin:
Certo è un termine che non userebbero tutti. Uno si potrebbe pure offendere perché lo chiami così: “io sono Oromo (ndr, etnia etiopica) non Habesha”.
In una situazione in cui ci sono tante divisioni politiche o etniche bisogna usare un termine che include, senza escludere né negare quello che tu sei. Vuoi essere chiamato in altro modo? Dimmelo, non c’è problema.

Però tu dici che, per chi l’accetta, è un termine per condividere…

Medhin:
Le persone nel film, quando spiegano quello che si ha di uguale non intendono uguale al 100%. Le diversità ci sono, più regionali che nazionali.
Ci sono delle somiglianze tra regioni dell’Etiopia e dell’Eritrea molto più forti che tra regioni interne ai singoli paesi.
Ci sono tante diversità.

La lingua è differente?

Medhin:
Ci sono tante lingue che si parlano, non solo tigrino e amarico, in Eritrea,  Etiopia e nel Tigray (ndr, Etiopia) dove si parla amarico. Tanti etiopici che sono qui sono del Tigray, infatti parlano anche  tigrino.

È difficile capire la differenza tra eritrei ed etiopici dalla lingua?

Medhin:
Beh, chi ha un buon orecchio lo capisce per gli accenti vari…

L’amarico però è stata una lingua  imposta agli eritrei negli anni’70, con Menghistu, che ha chiuso le scuole e, nelle poche rimaste, ha imposto una lingua diversa…

Medhin:
Non so io non c’ero.

Nemmeno io, però è storia…

Alan:
Sono elementi storici corretti, però l’istanza portata avanti da chi dice nel film che sono tutte persone, che tutti si considerano connazionali, al di là del fatto che lo siano o meno, che parlino la stessa lingua, questo sentimento d’apertura e d’inclusione vuol dire occuparsi degli altri

Un bel sentimento…

Medhin:
Molto habesha.
“Io mi occupo degli altri” è un sentimento molto habesha.
É importante sapere da dove viene la parola e i suoi vari significati…

La cultura habesha, secondo voi, vorrebbe un’unione politica tra Eritrea ed Etiopia?

Medhin:
É una speranza. I due paesi devono comunicare, anche solo l’economia dei due paesi ne trarrebbero vantaggio, se si mettessero d’accordo…

Alan:
Lo si dice anche nel film: “Etiopia ed Eritrea devono collaborare”, lo dice chi parla a Bologna nel teatro dove si svolgevano le riunioni negli anni’70.

C’è stato un momento storico in cui ciò è avvenuto, però non è stato un vantaggio per l’Eritrea…

Medhin:
Io ho dubbi che ci siano mai state vere, reali, sincere intenzioni a “livelli governativi” e il plurale è voluto (ndr, Usa e UE) per far sì che le cose andassero bene. Se così non è stato è perché qualcuno non ha voluto che andassero bene. C’erano interessi che non erano far stare bene le popolazioni.

Alan:
Come anche oggi.
Tutto quello che sta dietro i viaggi della speranza è un business enorme, un’economia che si regge su presupposti disumani. Forse sostituire un’economia umana a quella disumana non sarebbe male. Se i viaggi proseguono è perché molte persone sono interessate.

Secondo voi perché l’Etiopia non si ritira da quel tratto di territorio definito da un trattato internazionale eritreo?

Medhin:
La mia unica risposta può essere solo questa: non credo nella veridicità di quelle motivazioni, penso siano scuse messe lì dall’alto da un governo…

Cioè tu non credi che ci siano soldati etiopici lungo il confine eritreo?

Medhin:
Le esigenze sono altre. Se ti dicono stiamo tutti all’erta, stiamo con i fucili in mano perché sta per scoppiare la guerra, si sposta l’attenzione su un nemico che, per me, non è un nemico. Per me l’Etiopia non è un nemico, non lo sarà mai.

Capisco, ma le truppe ci sono, hanno fatto incursioni…

Medhin:
Ma se crei panico di qua e se crei panico di là… le truppe ci sono da entrambe le parti.

L’Eritrea è lì perché l’Etiopia non ha più abbandonato il confine…

Medhin:
Questo è quello che si dice, che l’Etiopia non abbia rispettato il trattato…

Più che un “si dice” è storia. Il trattato è scritto (ndr, 2002) e l’Etiopia è ancora su territori eritrei…

Medhin:
L’Etiopia è lì. Però io dubito che questo sia il problema centrale dell’Eritrea.

Se l’Etiopia abbandonasse i territori intorno a Badme, terminerebbe lo stato “no war no peace”.

Medhin:
All’Eritrea serve quella situazione…

Alan:
Certo, serve…

Medhin:
Certamente serve al governo eritreo.

L’Eritrea e il suo governo non sono stati, in questi ultimi 15 anni, aiutati da nessuno…

Alan:
Somalia, Eritrea, Libia, non c’è un cattivo che decide…

Che interesse avrebbe l’Eritrea di mantenere una situazione d’instabilità al suo interno?

Medhin:
Quelli che rimangono fregate sono le persone. A me non interessano i governi ma le persone che stanno male perché subiscono i giochi di potere degli altri. Se devono armarsi, lo chiedono alle persone, se c’è una situazione negativa la subiscono loro. Da una parte e dall’altra.

Torniamo al film: ha uno spirito habesha?

Sì, in questo senso.

Mi spiego meglio: mentre il titolo “Asmarina” allude a una canzone coloniale, la comunità di cui voi raccontate la storia è un gruppo habesha?

Medhin:
Sì perché a Milano la comunità è mista. Il nostro scopo era portare a galla delle memorie, far sì che le persone portassero a galla le loro memorie, anche su altri progetti, per altre piattaforme. Abbiamo tante storie. Il fatto d’iniziare a poterle raccontare era quello che volevamo fare, ma c’è tanto altro.

“Habesha” allora non sarebbe stato un bel titolo?

Medhin:
Ma rispetto ad “Asmarina” l’avrebbero capito molti meno.

Alan:
È una suggestione quella di “Asmarina”, soprattutto una suggestione che viene dai volti delle persone coinvolte…

Il film è stato presentato durante il Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina, come verrà distribuito in seguito?

Alan:
I canali di distribuzione saranno i festival, le scuole, l’università, gli incontri pubblici. Per una visibilità più continua stiamo lavorando. L’abbiamo fatto per farlo vedere.
Prossimamente sarà anche in dvd, per avere notizie si può visitare il nostro sito www.asmarinaproject.com

Bene, speriamo allora che molti possano vedere “Asmarina”, un manifesto della cultura habesha a Milano, Porta Venezia.

Marilena Dolce
@EritreaLive

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

Una risposta a “Porta Venezia, l’Eritrea a Milano”

  1. Diego Grandi ha detto:

    Habesha è una parola araba e significa schiavo-mulatto. Con il risorgere delle potenze marinare europee nel 1700 (Lepanto ecc.), finiva anche la tratta degli schiavi europei nel mediterraneo , pertanto i pirati barbareschi avevano rivolto le loro attenzioni verso le popolazioni africane, dopo aver depredato la Nubia, estinguendone la popolazione il loro raggio di azione si è spostato verso l’Africa centrale, gli schiavi catturati erano condotti dagli schiavisti arabi, dopo marce forzate verso i porti d’imbarco dell’oceano indiano, verso le miniere del Sinai ed i porti sul mar rosso, su questi percorsi, ad una distanza equivalente ad un giorno di marcia, erano sorti centinaia di caravanserragli, queste stazioni fornivano agli schiavisti un luogo sicuro dove tenere al sicuro le loro prede, abbreviare i loro animali e rilassarsi con le sharmute (prostitute schiave), l’unica moneta di scambio che gli schiavisti potevano offrire erano le giovani schiave vergini in loro possesso, con il passare degli anni ed il passaggio di centinaia di migliaia di carovane, intorno ai caravanserragli si sono formate delle baraccopoli abitate dai figli che le schiave africane avevano avuto dagli arabi e chiamate da questi in modo dispregiativo “habesh”; gli habesh nel 1800, divenuti a loro volta schiavisti, erano così numerosi da poter formare potenti eserciti al servizio dei re etiopici (imperatore Tedros) e fornire loro anche gli schiavi (si calcola che nel 1930 in Etiopia su una popolazione di 16/18 milioni di abitanti vi fossero oltre 5 milioni di schiavi; fonti inglesi e dei missionari), o al servizio di invasori stranieri inglesi, egiziani, italiani (guerra d’Etiopia 1935). Nel 1939 la popolazione di religione copta dell’Eritrea era meno del 22% oggi supera il 60%. Con l’occupazione inglese del 1941, l’amministrazione britannica per contrastare la guerriglia italo-Eritrea ha permesso l’immigrazione dal Tigray di centinaia di migliaia di abissini (molti di loro fuggivano dalla vendetta punitiva scatenata dagli etiopici contro i collaborazioni stiamo dell’invasione fascista ), la famiglia del dittatore Afwerki era una di queste. Ad Asmara esiste ancora il vecchio caravanserraglio, lasciato intatto dagli italiani a memoria dello schiavismo.

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